UN
SOGNO RICORRENTE
Carnevale del 1964.
Le feste mascherate non vanno più
di moda, ma una certa voglia
di
teatro mi spinge ad organizzarne una per i compagni di liceo.
I costumi ad affittarli costano.
Decido di attingere ad una
riserva
esclusiva, un tesoro nascosto che ha esercitato il suo fascino
misterioso
su di me fin da quando ero un bambino.
Passare davanti a quell'armadione mi ha sempre fatto rallentare
il passo, e due volte su tre non resistivo ad aprirlo. Il profumo che
ne
usciva è sempre stato la mia
"madeleinette" personale, e ormai so che
lo
rimarrà per sempre. Un misto di trucco antico, l'"Indio"
spesso e
balsamico;
di polvere di palcoscenico, indefinibile ma non confondibile;
di
velluti e cuoi consumati.
Da un'ondata spessa di quel profumo
vengono invasi i miei
compagni
di scuola quando spalanco le vecchie ante per loro. Ragazzi e
ragazze
diciottenni, dopo un attimo a bocca aperta, si buttano a scegliere
il
proprio personaggio, e schiamazzano felici.
Un signore attempato esce dal suo
studio con aria
interrogativa
e leggermente contrariata. E' stato disturbato. Ha un
sopracciglio
alzato, un'espressione un po' torva, il profilo più tagliente
del
solito. Quei capelli bianchi così insolitamente lunghi paiono ai
ragazzi
un residuo dell'ottocento, più o meno come il poco che sanno di
quel
signore e del suo essere un cantante d'Opera.
Un'attraente signorina si è infilata il costume di Edgardo, e
che
costui sia il protagonista della Lucia di Lammermoor, nessuno a
scuola
glie lo ha mai insegnato. Quegli stivali di pelle nera alti fino
alla
coscia le danno un aspetto a metà fra il seicentesco e il sessantot
Ma
nessuno può rendersene conto perché il sessantotto ancora non è
arrivato.
Anche i capelli lunghi del vecchio signore sono da considerar
un
residuo del passato, non un anticipo di mode future ancora sconosciute.
Lo sguardo accigliato di lui, leggermente
tiroideo, resta un
attimo
a scrutare la mise di quella moschettiera. La ragazza sente con
vago
imbarazzo che non è esattamente
uno sguardo paterno, quello che
l'altro
le tiene addosso.
"Bella ragazza" dice l'uomo
con voce leggera, un po' di testa,
e
d'improvviso sorride. Era la cosa più ovvia da dire, ma nessuno se
l'aspettava.
Lei diventa rossa come un tizzone, lui le tiene il sorriso
addosso.
Gli altri si scambiano sguardi divertiti.
Io di colpo, per la prima volta nella
vita, mi sento scaricare
addosso
il peso del tempo. A me che un passato ancora non ce l'ho, quel
sorriso
stracarico di ricordi mi ha trasferito dentro, come ne fossi
posseduto,
il senso del passato.
Alcuni giorni dopo siamo all'aeroporto,
lui ed io. All'estremo
limite
del corridoio trasparente che dà sulla pista attendiamo la
chiamata
all'imbarco. E' mio padre che parte, da solo; io l'ho soplo accompa
fin
qui.
Non ricordo neanche una parola del
dialogo; non sono neanche
sicuro
che abbiamo parlato. Ricordo solo un attimo in cui gli stavo alle
spalle,
e da lì intuivo il suo sguardo assorto puntato verso l'orizzonte,
come
se l'America che lo attendeva se la vedesse già davanti.
"Bè, ciao", credo
siano stati i saluti. E quell'abito grigio
un
po' panciuto ha infilato con antica dignità l'ultimo cancello d'imbarco
della
sua vita incredibile.
Ero perfettamente cosciente che poteva
essere l'ultima volta
che
lo vedevo, ma non riuscivo a considerarla un'eventualità concreta.
Che
andasse
o venisse era sempre stato per me del tutto indifferente, tanto
c'ero
abituato. In quei mesi del 1964, poi, il suo partire o tornare stava
già
acquistando dentro di me connotati ambigui, sfumati, perché il mio
sogno
ricorrente era già cominciato: e il sogno era che mio padre, prima
ancora
della sua partenza, era già tornato; non solo, ma pur essendo
ancora in vita, mio padre era tornato malgrado la sua morte.
Ho un sogno ricorrente: mio padre è
ritornato.