Con una introduzione
e a cura del prof. Gianni Carluccio
viene ora messo in linea, il carteggio tra le
istituzioni salentine e la famiglia Schipa per la creazione di un Museo Schipa
a Lecce.
Nel frattempo...
LECCE, UN PO' DI STORIA
Lecce e' un luogo d'incanto, un trionfo di architetture lievi come
arabeschi di schiuma, una citta' che pare fatta di talco, tanto da
temere che un colpo di vento da un momento all'altro se la porti via. Il
tufo leccese, ben diverso dall'omonimo parente povero dell'Italia centrale, e' un vero materiale pregiato. Quel suo colore dorato, unito alla
consistenza vellutata del gesso e alla singolare proprieta' di conservare e
distribuire calore d'inverno e frescura d'estate, ne fanno la difesa, il
marchio, la sostanza materiale e metafisica del luogo. Lavorandolo come se
fosse creta, gli scalpellini leccesi, antica stirpe di artigiani
specializzati che ai tempi d'oro del Barocco furono reclamati anche
all'estero, ne hanno tratto quei portali, quelle facciate, quei rosoni che
oggettivamente non paiono, non possono essere fatti di pietra!
Tutt'attorno, a perdita d'occhio sotto un cielo azzurrissimo,
pianure aride e pietraie, muretti a secco e ulivi, ulivi, ulivi. Ogni
tanto, a sorpresa, un paesino di poche anime fatto ad immagine e
somiglianza della citta' madre, ma in miniatura. E piu' in la', un po' troppo
in la', una costa che in alcuni punti non ha nulla da invidiare ad altre
d'Italia piu' rinomate.
Un po' troppo in la' questo mare, sicuramente. A giudizio degli
storici la mancanza di sbocchi portuali ha condizionato pesantemente Lecce
nei suoi rapporti con il resto del mondo, contribuendo a rinchiuderla in
quella sacca di isolamento, cui la citta' avrebbe poi finito per affezionarsi morbosamente.
Un leccese purosangue mi ripeteva spesso:
"Noi vogliamo esser lasciati soli".
Lo diceva sorridendo, ma non scherzava.
Il segno piu' clamoroso di questa diversita' di destini fra popoli
cosi' prossimi lo potete sentire nella lingua. Siamo lontani mille miglia
dalla simpatica, aperta cantilena dei baresi (gli antichi Peucezi) o dalla
tagliente calata dei foggiani (un tempo Daunici). A Lecce, antica terra di
Messapi e Iapigi, si parla un dialetto di particolare finezza, una sorta
di siciliano addolcito e reso estremamente signorile da una grazia
speciale nell'emissione e nel tono. Sommessi e discreti gli uomini,
dolcemente sopracute e femminilissime le donne. Peculiarita' irripetute nel
resto del Meridione sono quella "e" misteriosa e sommessa, quella "zeta"
lascivamente dolce e quel gruppo "ddh" (il nostro "ll") davvero anomalo
nella sua pronunzia di dentale liquida. Per non dire della sorprendente
vicinanza con il latino ("essi sono" fa: "iddhi suntu").
Non e' per divagare che tocco questo argomento: quando si vuol capire
perche' la voce di Tito Schipa sia riconoscibile alla prima sillaba e
perche' infonda ai personaggi quella nota di suprema sognante nobilta', non
si puo' prescindere dal fatto che chi canta e' un vero, genuino, tipico
figlio di "Lecce gentile e beddha".
Affezionati morbosamente alla loro aurea solitudine, ecco dunque i
Leccesi. Cittadini di quella che fu ribattezzata prima l'Atene, poi la
Firenze del Sud, nell'eleganza del dialetto i salentini rispecchiano
un'aristocrazia dell'anima che li rende esageratamente schivi da ogni
coinvolgimento. Il ritratto non tende all'eccesso. In fondo siamo nell'unico quadrante del Mezzogiorno dove la parola mafia (o tristi affini) non
ha avuto per secoli praticamente nessun riscontro. Fin dai tempi del
tallone romano, ghiotto di sbocchi al mare e per questo non particolarmente attento a Lecce; poi sotto le ondate progressive delle invasioni
nordiche; poi sotto l'ipnotica coltre della dominazione spagnola (la piu'
gradita nella sua catatonia); fino ad un Risorgimento piu' sopportato che
voluto, questo popolo ha teso quant'altri mai a ritirarsi nel proprio
guscio e a rivolgersi verso una sognante introspezione, simile a quella
siciliana ma priva di ogni "desiderio di morte", contemplativa e sorridente, follemente innamorata della Musica e del Canto.
Attraverso tutto questo passa, come un filo rosso che attraversa la
storia ma resta magicamente fuori dalla storia, il segno dell'irrazionale,
del dionisiaco, ancora una volta espresso principalmente attraverso la
Musica. I nastri multicolori delle "tarantate", i loro abiti bianchi ed il
rituale morboso del loro esorcismo in musica, danno il tocco finale al
ritratto di una gente davvero particolare. L'archetipo della musica come
scatenamento dell'istinto e allo stesso tempo come suo addolcimento e
cura, oggi sopravvive qui. Qui le baccanti compaiono ancora ogni Luglio,
ubriache e lascive, sulla via di Galatina. Senza scherzi. Dioniso non e'
morto, nel Salento; o in Terra d'Otranto; o nelle Terre Aride; o nella
Terra del Rimorso ; o a Lupia, Lipia, Luppia, Lupio, Lispia, Licio,
Lictia, Licea, Licia, Lecce o qualunque nome preferiate usare dei molti
che sono stati tentati. Dioniso non e' morto, quaggiu'; anzi il suo morbo
danzante e' segretamente adorato e temuto. Per millenaria tradizione la
musica lo scatena, e da millenni con la musica lo si cura.
Era il 1888 e Lecce vedeva nascere, nel popolarissimo quartiere delle Scalze, il piu' grande dei suoi taumaturghi.
(da "Tito Schipa", di Tito Schipa Jr. - Ed. Loggia de' Lanzi, Firenze)